di Giancarlo Abbate

Ci stiamo velocemente avvicinando alla Conferenza sul clima di Parigi 2015 COP 21 (30 novenbre-11 dicembre) che dovrà segnare una tappa decisiva nei negoziati del futuro accordo internazionale per il dopo 2020. La preoccupazione per la salvaguardia delle condizioni di vita dell’umanità sul nostro pianeta è ormai diffusa non solo tra i politici, gli ambientalisti, gli scienziati ma anche, per fortuna, tra una gran parte della popolazione, almeno quella più attenta al futuro. Si sa che molte azioni sono state decise e messe in atto da alcune nazioni, ad esempio per contrastare il riscaldamento globale del pianeta, e si guarda generalmente con fiducia a quello che si potrà e dovrà fare nel futuro per evitare un collasso generalizzato. Spesso però alla maggior parte delle pekbus 4rsone, ma non agli attori più direttamente coinvolti, sfugge la reale dimensione ed urgenza del problema. È una comune riflessione che, pur in mancanza di un pieno raggiungimento dell’obiettivo della riduzione entro il 2020 del 20% delle emissioni di CO2, stiamo comunque sulla buona strada, stiamo facendo i nostri compiti, stiamo riducendo significativamente le emissioni. Purtroppo la realtà è molto diversa e più grigia. Ad oggi, stiamo ancora aumentando le emissioni di gas serra (GHG) verso l’atmosfera terrestre, l’unica cosa che sta diminuendo è il tasso di crescita delle nostre emissioni. La speranza è che l’inversione di tendenza, cioè il passaggio da un aumento ad una effettiva diminuzione delle emissioni, non sia molto lontana nel tempo. Perché la speranza si tramuti in una seria previsione, le azioni necessarie sono molteplici e, come detto, urgenti.
Il trasporto di merci e persone è uno dei settori maggiormente responsabili di emissioni di GHG e di conseguenza fondamentali sono gli interventi da porre in atto in questo campo; molti sono stati ideati e programmati, alcuni, come ad esempio piccole ma efficaci correzioni sulle rotte, altitudini e velocità dei percorsi aerei, sono stati già attuati.
In questo articolo parlerò di trasporto collettivo di persone, in città e su medi percorsi (ambito provinciale).

Trasporto elettrico su gomma
Il giornale online su cui scrivo, iMille.org, ed in particolare la sua redazione Energia & Ambiente, hanno come punto fermo un’attenzione razionale e ragionata verso le tematiche ambientali ed una preoccupazione costante per la ricerca di soluzioni sostenibili sia nell’immediato futuro, sia nel medio e lungo termine. Il problema del trasporto è uno dei temi maggiormente discussi e le varie soluzioni proposte si basano quasi sempre sulla preferenza del trasporto su ferro. Ci sono tuttavia alcuni ambiti ed alcuni vincoli spaziali e temporali, oltre a quelli di natura economica, che limitano o impediscono che le soluzioni di trasporto su ferro siano implementate in modo da sostituire totalmente o in misura maggioritaria il trasporto su gomma. Per fare qualche esempio, Torino e Milano, due città relativamente facili dal punto di vista della geomorfologia e della sistemazione urbanistica e consapevoli dei problemi ambientali, hanno la seguente distribuzione per il loro trasporto pubblico (dati presi dai siti delle rispettive aziende GTT e ATM). Torino: 11 linee su ferro, di cui una metropolitana, circa 100 km complessivamente; circa 100 linee su gomma per complessivi 950 km di rete. Milano: su ferro 19 linee di tram per 170 km e 4 linee di metropolitana per 90 km; su gomma 100 linee di bus per circa 900 km e 4 linee di filobus per 40 km; confrontando vagoni e vetture si hanno 1230 carrozze circolanti su ferro e 1550 carrozze su gomma. Dunque il trasporto pubblico su gomma è nettamente prevalente nelle città italiane e presumibilmente lo rimarrà per molti anni ancora (purtroppo dirà giustamente qualche mio amico). E il trasporto su gomma, con poche e non significative eccezioni, richiama una parola che per le sue problematiche ambientali (e legali) è sulle prime pagine dei giornali in tutto il mondo: DIESEL.
I bus a gasolio non solo inquinano e rilasciano CO2 in atmosfera ma hanno anche alti costi di esercizio, soprattutto per il combustibile il cui costo è da 8 a 10 volte quello dell’energia elettrica necessaria a parità di
percorso. I bus elettrici tradizionali a batterie elettrochimiche dovrebbero perciò essere sicuramente preferiti: non producono emissioni ed utilizzano l’energia in modo più efficiente e perciò meno costoso. Hanno però problemi di autonomia, del lungo tempo di ricarica e della breve vita media delle batterie. E’ emblematico il caso dei 60 bus elettrici di Roma fermi nei depositi perché le batterie che dovevano durare 5 anni erano in realtà fuori uso dopo 3 anni. Alcune aziende stanno perciò proponendo come sistema alternativo alle batterie i supercondensatori. Ma facciamo un passo indietro, per cercare di capirne un po’ di più.
Il 20 ottobre 2009, quasi 6 anni fa, Elvira Pollina scrive sul corriere.it, nella sezione “scienze”, un articolo dal titolo “I bus che si ricaricano alla fermata”. Nell’articolo si parla in maniera giustamente entusiastica di una promettente innovazione per la mobilità elettrica, cioè bus elettrici alimentati da supercondensatori, in inglese supercapacitor o in breve “supercap”. Una linea sperimentale di bus a supercap ha circolato a Shangai dal 2006 e 40 supercap bus hanno circolato durante EXPO Shanghai 2010; bus a supercap erano previsti negli anni successivi nel campus dell’American University di Washington, per le strade di New York, Chicago e in alcune città della Florida. In realtà non mi risulta che ci siano bus a supercap circolanti negli USA ed in Europa il primo, e finora unico, bus a supercap ha circolato nel 2014 per le strade di Sofia in Bulgaria. Alcuni colossi internazionali del trasporto pubblico come Bombardier e ABB sono fortemente interessati e coinvolti in questa tecnologia ma il mercato sembra non averne ancora recepito le grandi potenzialità. Come mai? Si tratta realmente di una tecnologia “verde” ed economicamente conveniente o è soltanto un’altra impraticabile fuga in avanti? Nel primo caso, cos’è che blocca il mercato e cosa lo potrebbe finalmente sbloccare? Vediamo.
I supercap sono sistemi di accumulo e rilascio di energia elettrica con alcune notevoli differenze rispetto alle batterie elettrochimiche. Valori tipici di alcuni parametri rilevanti sono mostrati nella tabella seguente:

Consideriamo una percorrenza giornaliera standard di 250 km ed un consumo medio di 1 kWh/km (corrispondente ad una stima effettuata a Torino; un valore misurato recentemente a New York è di 1,34 kWh/km), al bus a batterie servono circa 1,7 tonnellate di batterie per un costo di circa 250.000 $. Questo pacco batterie può essere ricaricato in 2,5 ore se si dispone di una potenza di 100 kW (o in 10 ore con 25 kW di potenza). Non sono numeri confortanti ma il punto veramente negativo è la durata delle batterie: considerando un ciclo di carica/scarica al giorno, la durata è meno di 3 anni, come hanno sperimentato tristemente a Roma. Conclusione: il bus elettrico a batterie costa più di un bus a gasolio. Si, ma con quei soldi ci paghiamo l’abbattimento delle esternalità, cioè il fatto di non inquinare. Peccato però che non sembrano in molti disposti a farlo.
E il bus a supercap? Si vede dalla tabella che il costo iniziale dei supercap per l’accumulo di energia è 4 volte maggiore rispetto alle batterie e inoltre per un’equivalente autonomia giornaliera ci vorrebbero più di 30 tonnellate di supercap, quindi il concetto dell’autonomia giornaliera a bordo è assolutamente improponibile; però fortunatamente è anche non necessario. Il grande valore della potenza specifica dei supercap permette di spostare “l’autonomia giornaliera” da bordo bus a terra, cioè alle fermate previste per il bus. A bordo è necessaria solo l’autonomia per percorrere la distanza massima tra due fermate consecutive, poniamo 3 km. Inoltre, grazie all’alta potenza specifica dei supercap, questi bus possono recuperare quasi tutta l’energia persa in frenata restituendola ai supercap (come fa il kers della Formula 1, che usa appunto i supercap) ed il consumo medio si attesta intorno a 0,7 kWh/km, molto meno rispetto ai bus a batteria. A bordo, sono perciò necessari solo 260 kg di supercap per un costo inferiore a 8.500 $. Anche per i bus a supercap, un punto importante è la durata del sistema di accumulo: considerando un valore medio di 100 cicli al giorno, necessari per assicurare la percorrenza giornaliera, la durata si attesta intorno ai 30 anni, cioè maggiore della vita attesa di un normale bus di linea.

kbus 1Alla prima delle 2 domande poste sopra possiamo quindi rispondere positivamente: si, è una tecnologia con minimo impatto ambientale ed economicamente vantaggiosa. Perché dunque non si è velocemente affermata e ci sono ancora solo poche sperimentazioni in giro per il mondo? Come abbiamo visto, i supercap hanno un’altissima potenza specifica, cioè possono ricaricarsi in brevissimo tempo, diciamo una decina di secondi, che è il tempo minimo di sosta ad una fermata, e per questo motivo hanno suscitato tanto interesse e tanta speranza. Ma che potenza elettrica è necessaria per ricaricare il pacco di supercap di un bus in 10 secondi? Un po’ meno di 1 megawatt (0,76 MW per ricaricare 2,1 kWh), cioè una potenza talmente grande da escludere tassativamente che possa essere distribuita dalla rete cittadina ad ogni fermata del bus. Aumentando il tempo di ricarica, si richiede una potenza proporzionalmente minore, con 63 kW ci vogliono 2 minuti, con 25 kW 5 minuti. Quest’ultima è una potenza alta ma possibile, purtroppo 5 minuti di sosta ad ogni fermata non sono tollerabili.
Anche quest’ultimo grande ostacolo, però, si può superare applicando un’idea ingegnosa, quella del biberonaggio. Con qFunzionamento K-Busuesto termine, si intende un sistema di trasferimento di carica da un pacco di supercap carichi posto in una cabina a terra al pacco scarico posto a bordo del bus. Questo trasferimento non pone alcun problema di potenza poiché coinvolge solo supercap, la cui potenza specifica, come sappiamo è molto alta. Dopo la ripartenza del bus con i supercap ricaricati, nella cabina di terra i supercap sono ormai scarichi e vengono quindi collegati alla rete cittadina per essere ricaricati nell’intervallo tra due passaggi consecutivi del bus; se questo intervallo è di 10 minuti, è sufficiente una potenza installata di 12-13 kW per effettuare la ricarica. Questo sistema però è stato brevettato nel 2006 dalla società KiteGen Research ed il brevetto è registrato in quasi tutti i paesi del mondo. Ciò ha creato probabilmente delle difficoltà alle aziende che stanno sperimentando i bus a supercap senza il biberonaggio o spinge alcune di esse a tentare di aggirare il brevetto per non incorrere in violazioni dello stesso.

kbus 3L’azienda che detiene il brevetto ha presentato una proposta per la sperimentazione a Cuneo, durante un incontro pubblico tenuto nell’aprile scorso nella sala della Fondazione Delfino in piazza Galimberti, alla presenza di amministratori locali e regionali. Contemporaneamente una richiesta di sperimentazione di un
bus elettrico a supercap, presentata all’azienda di trasporto torinese GTT alcuni anni fa, è stata di recente ripresa dagli amministratori della città per verificarne la fattibilità su una delle due linee cittadine, la Star 1 e la Star 2, attualmente servite da bus elettrici alimentati da batterie elettrochimiche.
Nel frattempo, con o senza brevetto, in Cina vanno avanti ed i bus a supercap stanno per passare da una fase sperimentale ad una fase di utilizzo regolare anche se con piccoli (per la Cina) numeri. E qualcuno, anche in Europa, se ne accorge … (vedi l’articolo pubblicato ad agosto su Sciencepost.fr).